Studenti e insegnanti si ritrovano spesso in questi giorni per le cene di fine anno. A volte si tratta di riti un po’ stanchi e tristi. Più spesso di momenti intensi, carichi di significati simbolici, che danno il senso del percorso fatto, delle relazioni che si sono costruite. Specialmente nel caso delle classi quinte della scuola superiore, che stanno per entrare nel fantastico, e spesso deludente, Mondo degli Adulti. Per questo sbagliano gli insegnanti che non partecipano a queste cene, dimenticando quanto quel momento sia rimasto impresso nella memoria e nell’immaginario di molti di noi. Non a caso. Qualche giorno fa si è tenuta una delle cene delle quinte della mia scuola. Dove naturalmente si è ripetuta la consueta carrellata di aneddoti e parodie su studenti e insegnanti, con immancabile corollario di foto e video. E’ poi partito un giro di tavolo tra i ragazzi, nel quale a turno tutti hanno preso la parola, cercando di dare il segno di quello che ha rappresentato la scuola per loro. Un pensiero, un ricordo, un’emozione. Molti si sono commossi, come è comprensibile. Altri sono andati oltre e sono scoppiati in un pianto a dirotto. Sorprendente, scomposto. In quella cena è come se si fosse squarciato un velo. Ne abbiamo parlato a lungo con gli insegnanti. Che la scuola sia importante nella vita degli studenti lo sappiamo. E’ inutile anche sottolinearlo. Che si emozionino quando finisce la scuola è comprensibile. Ma in quel pianto scomposto c’era qualcosa di più della naturale commozione. E’ qualcosa su cui dobbiamo riflettere.
Alcuni di quei ragazzi hanno storie molto difficili. Genitori assenti, contesti sociali problematici, traumi fisici e affettivi. Quel pianto a dirotto parla del debito di riconoscenza verso gli insegnanti che hanno preso a cuore le loro vicende umane, andando ben al di là dei loro obblighi professionali. In alcuni casi, come si dice, hanno fatto da mamma e da babbo, cercando di colmare le lacune affettive. In altri hanno seguito personalmente i ragazzi fuori dalla scuola. Li hanno aiutati con le famiglie, le forze dell’ordine, la magistratura, i servizi sociali e quant’altro. A volte gli hanno trovato persino da mangiare e da dormire. Ma quelle bellissime lacrime scomposte raccontano anche del dolore di rompere un cordone ombelicale, della paura di dover cominciare a camminare autonomamente. Senza più riferimenti affettivi forti, senza accompagnamento quotidiano. La separazione, come sappiamo noi adulti, è sempre difficile da accettare. Ma è inevitabile in un percorso di crescita autentico. Lo abbiamo scritto anche sui muri del Marco Polo, riprendendo un proverbio cinese: “L’insegnante ti apre la porta, ma tu poi devi andare da solo”. Cari ragazzi, se servirà, noi ci saremo sempre. Ma ora dovete aprire quella porta e provare ad affrontare la vita da soli.
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