È sabato mattina, sono a scrivere l’articolo per la rubrica Cambiamo Registro su Repubblica e non ho molta voglia. Mi fa fatica, direbbero i ragazzi. Forse perché sono provato da giorni intensi. O perché non mi viene in mente una storia particolare da raccontare. Ma forse anche in questo c’è una storia. Non siamo sempre “on fire”, sempre tesi come in un famoso sketch di Verdone. Qualche volta non ce la facciamo. Perché siamo stanchi, perché ci è capitato qualcosa di brutto o perché abbiamo lo “spleen” di baudelairiana memoria.
Questa situazione può capitare a noi e agli altri. Dovremmo ricordarcelo. Quando ci vogliono sempre perfetti. Quando cerchiamo di applicare in modo rigido regolamenti come fossimo soldati. Quando qualcuno ci ripete che ce la possiamo fare o, peggio, che ce la dobbiamo fare. Invece qualche volta non ce la facciamo. Perché non siamo supereroi. Tutti i giorni si vede gente che “non ci sta dentro”, che sfugge alle norme di comportamento che ci siamo dati. Come la mettiamo? Vogliamo continuare ad alzare il ditino per bacchettarli o accettiamo gli “errori”, nostri e degli altri?
«Prof, le dico la verità, sono arrivato in ritardo perché non mi sono svegliato». «Mi vorrei giustificare. Ieri non ho studiato, non ne avevo voglia». «Preside, ho un momento difficile in famiglia, posso non partecipare alla riunione di oggi?». Come sarebbe bello un mondo in cui, invece di fare finta di essere sempre all’altezza e rispettabili, potessimo esprimere i nostri sentimenti e le nostre debolezze contando sulla comprensione degli altri. Mi capita quotidianamente di raccogliere il dolore e le fatiche di professori, Ata, studenti e genitori. Solo un esempio.
Ieri un’insegnante considerata “tutta d’un pezzo” è venuta in presidenza in lacrime. «Sono in difficoltà. Ho una ragazza ucraina in classe. Bravissima, straordinaria. Tutte le volte che faccio storia e parlo di guerra la vedo turbata perché pensa ai suoi familiari e ai suoi amici sotto le bombe. Non so come fare. La storia del Novecento è attraversata dalle guerre. Non posso non parlarne, ma non riesco a guardarla negli occhi mentre ne parlo».
Io non ho saputo aiutare l’insegnante. Non ho trovato parole giuste da dirle. Le ho semplicemente fatto una carezza. In certi momenti possiamo solo cercare di starci vicino e accoglierci, adulti e ragazzi, come possiamo. Per far sì che una scuola rimanga una scuola e non diventi una caserma.
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