Mi segnalano uno studente che ha commesso diverse scorrettezze negli ultimi tempi. Si è rivolto in modo sgarbato verso docenti e compagni, è uscito improvvisamente da scuola senza permesso e altre cose. Gli insegnanti hanno fissato una riunione per valutare il caso. Nel frattempo con la coordinatrice di classe decidiamo di convocarlo in presidenza.
Gli riassumo le cose che sono successe e la posizione di molti insegnanti. Poi gli chiedo il suo punto di vista. «Non ho nulla da dire». «Guarda che siamo qui per cercare insieme una soluzione alla situazione che si è creata». «Non so cosa volete da me. Comunque non mi importa nulla. Tanto ho già deciso di smettere. Anzi, da domani non vengo più a scuola». «Facendo così non è che fai un dispetto a noi». Si irrrita. «Non faccio dispetti a nessuno. Non mi interessa più venire a scuola e basta». «Vabbè, se la metti così, dovremo parlare con i tuoi genitori». «Con mia madre», mi corregge. Scopro poi che ha perso il padre e mi spiace molto non averlo saputo prima. «Io avrei voluto smettere da tempo. Sono venuto a scuola solo per non dare un dispiacere a mia madre, ma adesso basta». Decido di fare un passo indietro e cambiare tono.
«Proviamo a ricominciare la discussione. Mi fai capire perché non stai bene a scuola?». «Non è per la scuola, la scuola è bella. Mi trovo male con alcuni insegnanti. Non con lei, che è bravissima», dice rivolgendosi alla professoressa. «Poi mi sento troppo diverso dai compagni. Loro sono una cosa, io un’altra». «Il quadro scolastico è critico, ma potresti recuperare». «Se mi ci mettessi, le cose le capirei anche, ma non ho voglia di studiare. E non voglio più fare cose che non mi va di fare». «E cosa ti va di fare?». «Non so, so che voglio essere libero. E a scuola non mi sento libero». I suoi occhi diventano lucidi. Emerge tutta la sua fragilità. Ma anche la nostra impotenza. La sua insegnante propone un percorso psicologico e un aiuto se volesse trovare lavoro. Io provo un’ultima domanda. «C’è qualcosa che ti interessa?». «Da qualche mese faccio pugilato. Ho un allenatore matto, ma simpatico. Non sono ancora tanto bravo, ma sto migliorando. È uno sport individuale, sento che mi aiuta a lavorare su me stesso».
Quando rimango da solo, penso a quanti errori abbiamo fatto con lui. Il suo fallimento è anche il nostro. Forse soprattutto il nostro. Perché della sua storia lui ha capito molte più cose di quante ne abbiamo capite noi.
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