“Che ci faccio qui” è una delle (poche) trasmissioni davvero interessanti che capita di vedere in televisione. Il giornalista Domenico Iannacone racconta in modo straordinario alcune storie degli Ultimi. Ultimi per la condizione sociale in cui si trovano, certamente non per lo spirito e il coraggio che dimostrano tutti i giorni. Sono storie che sembrano appartenere a mondi lontani, invece si trovano dappertutto, anche nelle nostre città considerate civili. Spesso non le intercettiamo solo perché abbiamo la fortuna di abitare in case confortevoli e fare lavori dignitosi. Ma noi nel mondo della scuola quelle storie di vita le incontriamo.
Perché gli Ultimi hanno figli. Che a volte non frequentano nemmeno le scuole. Ma altre volte a scuola ci vengono. Entrano nelle nostre classi e cercano di starci come possono. Alcuni provano a nascondersi, per non apparire diversi. Raccontano poco, sono silenziosi, celano con dignità storie di enorme dolore e fatica. Altri sono irrequieti, insofferenti, non riescono a rispettare le nostre regole, a stare dentro la camicia di forza istituzionale che mettiamo loro.
Rispetto agli Ultimi, il mondo della scuola deve decidere cosa fare. Se guardare alle prestazioni senza tenere conto delle loro storie, in nome di un principio meritocratico “assoluto e oggettivo”. O se provare a fare della scuola pubblica davvero la scuola di tutti, con attenzione particolare a chi ha più bisogno. Una scuola con un’altra idea di meritocrazia. Se decidiamo di seguire la seconda strada, però, dovremmo essere conseguenti.
Guardare in faccia i nostri studenti e cercare di capire chi sono e come stanno. Mettere in atto pratiche quotidiane di ascolto e accoglienza. Dotarsi di figure di aiuto per sostenere chi si trova in difficoltà. Valutare tenendo conto delle condizioni di partenza (in questi giorni di scrutini dovremmo ricordarcelo). Portare bellezza negli ambienti scolastici per restituirla a chi non può permettersela nella propria vita privata.
La scuola italiana sta cambiando, ma ancora in troppi continuano a curare i “sani” e respingere i “malati”. Fra l’altro si potrebbe discutere a lungo su chi siano i sani e chi i malati. Il nostro lavoro, alla fine, sarebbe semplice. Cercare di tenere i ragazzi a scuola, dando loro gli strumenti emotivi e cognitivi per trovare la loro strada. Solo così si possono davvero garantire a tutti le stesse opportunità e ridurre le disuguaglianze sociali. E solo così possiamo scoprire che alcuni di quelli destinati a essere ultimi nascondono in realtà talenti straordinari, che avremmo il dovere di riconoscere e valorizzare.
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