“Cosa hai lì sotto?” Chiede il docente visibilmente alterato. “Dove, prof?” ”Non fare il finto tonto! Sotto il banco, tiralo fuori!” Il dialogo, iniziato ambiguo, diventa surreale. “Non ho nulla.” “Ah, sì? E questo cos’é?” “Toh, un cellulare.” Poi i fenomeni della scuola proseguono con colpi di genio. “Giuro, non lo stavo guardando”, “? vero, l’ho preso, ma solo per guardare l’ora”, “Non é il mio, non so chi lo ha messo qui”.
Tutti i giorni si consuma nelle aule scolastiche la guerra dei telefonini. I ragazzi non riescono a tenerlo spento e lo guardano continuamente per essere sempre connessi. Gli insegnanti cercano di controllare, ma spesso inutilmente. Molti studenti si nascondono e agiscono dalle loro trincee impenetrabili. Altri invece sono sfrontati e si rivelano. Facendo inevitabilmente precipitare la situazione.
“Prof, mi scusi, mi sta chiamando mia madre, posso uscire?” ”Tua madre non ti deve chiamare a scuola e poi tu dovresti tenere il telefono spento!” ”Prof, ma magari é urgente” (Di solito l’urgenza è: “Cosa vuoi da mangiare oggi, amore?”). “Per urgenze tua madre può chiamare la scuola. Basta, dammelo, te lo sequestro.” “Non può, é mio, é violazione della proprietà privata, è abuso di potere”. Segue in genere colluttazione con telefono sottratto e portato in presidenza.
Che si fa? Continuiamo a combattere una guerra persa? Usiamo il pugno duro ritirando i cellulari per l’intera mattinata di scuola? Cerchiamo il modo di utilizzarli a fini didattici per disinnescarne il potere demoniaco? Si narra che una volta in una classe un’insegnante abbia strappato di mano un cellulare ad un allievo che non seguiva le sue lezioni di italiano per poi scoprire che stava leggendo Dostoevskij. Parliamone.
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