Quando incontro studenti universitari, emerge spesso un sentimento di liberazione dalla scuola, in particolare se ne hanno frequentata una tradizionale. Raccontano di aver vissuto con oppressione lo stare in classe, il controllo continuo dei professori, le regole troppo rigide, la minaccia costante di essere interrogati. All’università si sentono invece più a loro agio. Sanno che ci sono lezioni da frequentare e che poi ci sarà il momento degli esami, nei quali dimostrare di aver acquisito le conoscenze richieste. In questa impostazione si riconoscono di più, la considerano più consona ai loro tempi.

Qualche giorno fa ero a tavola con le mie vicepresidi e abbiamo parlato di questo. Ho espresso un punto di vista. «Forse anche nella scuola dovremmo riproporre il modello universitario, almeno nel triennio delle superiori quando gli studenti sono più grandi. Per un periodo, ad esempio un quadrimestre, potremmo trattare gli argomenti delle diverse discipline e, al termine, prevedere una sessione di esami per valutare gli apprendimenti. Potrebbe essere più funzionale, sia per gli studenti che per gli insegnanti».

È nata una vivace discussione. Ma sostanzialmente le mie vicepresidi si sono dette contrarie. «Probabilmente gli studenti apprezzerebbero l’approccio universitario anche a scuola. Ma da noi non va bene. A scuola incontriamo i ragazzi in un delicato momento del percorso di crescita. Dobbiamo concentrarci sul processo più che sulla prestazione. Il modello universitario invece valuta solo la prestazione».

La discussione finisce qui. I loro argomenti mi hanno convinto. L’università non guarda alle storie dei ragazzi, non considera i loro livelli di partenza né il percorso. E forse, in quel momento della loro vita, va bene così. Noi facciamo un altro lavoro. Stiamo tutti i giorni con ragazze e ragazzi, li accogliamo, li seguiamo quotidinamente per cinque anni. Non possiamo non considerare le loro storie. Concentrare le valutazioni in una/due sessioni all’anno sarebbe riduttivo e mortificherebbe il senso della scuola, che ha al centro la relazione tra adulti e ragazzi.

Sono felice che le mie giovani vicepresidi mi abbiano fatto cambiare idea. L’ennesima conferma del fatto che, se ci si ascolta, tutti possiamo imparare da tutti.