Sono intervenuto a un incontro sul benessere dei docenti a Rimini. Di benessere dei docenti non si parla. Figuriamoci praticarlo. Se va bene, si parla di quello degli studenti. Ma non va bene quasi mai. Perché adesso è di moda il ritorno alla sedicente scuola seria. Quella triste e grigia nella quale l’autorevolezza coincide con l’autoritarismo. In questa scuola, basata su ordine e disciplina, parlare di benessere significa cedere a istinti “buonisti”, nella convinzione che, per insegnare e apprendere bene, bisogna patire.

Alcuni invece pensano che il benessere vada promosso. A Rimini abbiamo discusso di come stiamo e di come potremmo stare meglio. Il quadro emerso è noto. Basta chiedere a studenti, insegnanti e Ata, che raccontano di sentirsi stanchi, stressati, annoiati. Gli studenti soffrono metodologie e programmi vecchi, carichi eccessivi di compiti e interrogazioni. Gli insegnanti lamentano il basso riconoscimento sociale e le mille molestie burocratiche. Tutti vivono una scuola che non appassiona, non libera, non consente di esprimersi. Così, quando gli studenti vanno all’Università e gli insegnanti in pensione, tutti vivono la fine della scuola come una liberazione. Che fare?

A Rimini si è posta una questione: «Oggi i presidi hanno un forte potere di condizionamento. Cosa si fa quando manca il dialogo con loro, quando esprimono atteggiamenti autoritari? Come difendersi dalla loro variabilità umorale e professionale?»

Le risposte sono due. La prima è una diversa selezione e formazione dei presidi. La seconda è la democrazia, studenti e insegnanti che si mobilitano per difendere le proprie istanze. Ma alcuni presidi (e Dsga) dovrebbero cambiare approccio. Non siamo i padroni della scuola. Siamo al servizio della nostra comunità. Avere maggiori responsabilità non significa che dobbiamo paralizzare e reprimere. Non facciamo prove di forza. Siamo tutti dalla stessa parte. Ascoltiamo le nostre fragilità, umane e professionali, e accogliamo quelle di docenti, studenti e Ata. Cerchiamo soluzioni condivise. Perché, comunque la pensiamo, se non stiamo bene tutti, non si potrà mai fare buona scuola.