In questi giorni si parla di “rivolta dei presidi” per rappresentare il disagio di una categoria mobilitata contro le tante molestie burocratiche che opprimono il nostro lavoro e i livelli di retribuzione non corrispondenti all’enorme carico di responsabilità. La moltiplicazione delle reggenze rappresenta poi indubbiamente un peggioramento della qualità dell’istruzione perché un preside non può gestire efficacemente due scuole diverse e spesso complesse. Le ragioni del malcontento sono pertanto certamente fondate. Il dirigente scolastico dovrebbe essere soprattutto un leader educativo e lavorare sulle relazioni, sulla didattica, sui processi di apprendimento. Tutti i giorni ci troviamo invece a fare i conti con mille procedure, spesso insensate, che ci distraggono dai ragazzi e dalla scuola vera.
Ma le forme di protesta che propongono alcuni miei colleghi non mi trovano d’accordo. In questo Paese dovremmo uscire dalla logica corporativa in cui ognuno si preoccupa esclusivamente degli interessi della propria categoria. E dovremmo evitare che l’espressione delle proprie ragioni si faccia bloccando un servizio pubblico o arrecando un danno a cittadini incolpevoli. Credo che sia venuto il tempo di ragionare in termini di comunità e cercare alleanze piuttosto che divisioni e conflitti. Intanto all’interno della scuola. Dove dirigenti, docenti e personale Ata hanno molti motivi comuni per protestare. E sarebbe importante che lo facessero insieme, all’interno di un’idea condivisa di scuola. Poi sarebbe altrettanto importante che si creasse un’alleanza con studenti, famiglie e territorio perché alcune delle cose che non funzionano danneggiano non solo noi, ma anche e soprattutto loro.
Ma c’è un altro punto. Dovremmo guardare alle vicende della scuola con maggiore obiettività. Quando valutiamo la riforma, ad esempio, dovremmo avere l’onestà intellettuale di evidenziarne i pregi e i difetti. Chi la considera come il male assoluto o come la panacea di tutti i mali è francamente poco attendibile. Se parliamo di valutazione, possiamo dire che siamo perplessi sulle attuali procedure, ma a condizione di riconoscere che il tema va affrontato e che tutti accettiamo di rendere conto di quello che facciamo, a cominciare da chi ha più potere.
Negli ultimi anni i governi stanno prestando maggiore attenzione alla scuola. Ma con esiti alterni. L’organico potenziato rappresenta indubbiamente un miglioramento mentre l’impossibilità di sostituire il personale Ata assente è un fatto grave. Le deleghe contengono elementi positivi e negativi e il contratto sulla mobilità riapre il dialogo con le parti sociali, cercando un punto di equilibrio tra prerogative del preside e condivisione con i docenti. Siamo però ancora lontani dalla rivoluzione di cui ci sarebbe bisogno. Che dovrebbe partire da un maggiore riconoscimento, anche economico, di chi lavora a scuola e del valore dell’educazione.
Per questo è giusto stare in allerta e chiedere di essere più ascoltati. Ma non cedendo all’italica lamentatio ed evitando forme di protesta che non si addicono al nostro ruolo istituzionale e che alimentano l’immagine di una scuola conservatrice e protestataria. Facciamo sentire la voce della comunità scolastica in modo unitario su questioni precise e costruiamo delle controproposte che si muovano in una logica di innovazione, assumendoci l’onere di interloquire con le istituzioni e con l’opinione pubblica in maniera responsabile. Questo ci consentirà di essere più credibili e renderà più forti le nostre ragioni.
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